Praticantisti, Permissivisti, Negazionisti

statua liberta spaventata
Un mio caro amico, che ringrazio, commentando il mio post
ideologia liberalista e nichilismo del 27 scorso, mi ha scritto:

sembra quasi la nascita del partito nazista cattolico

La battuta, nonostante fosse colloquiale e coscientemente esagerata, mi ha molto colpito. A parte l’uso del nazista che fa sempre uno strano effetto, quello poi del termine cattolico è completamente fuori luogo perchè il fatto che io sia cattolico (o che abbia certe idee in generale) non ha nulla a che vedere con l’argomento di fondo di quel testo.

Voglio quindi tornare a spiegare la questione, con altre parole. Anzi, con esempi: exampli gratia, dicevano i latini.

Prendiamo l’esempio dell’aborto. Le persone si dividono in 3 tipi:

  1. Praticantisti: quelli che, se gli capitasse, lo praticherebbero senza problemi
  2. Permissivisti: quelli che, pur non volendolo praticare, ritengono accettabile che lo facciano gli altri e che quindi la legge lo conceda
  3. Negazionisti: quelli che, non volendolo praticare e ritenendolo profondamente inacettabile, ritengono giusto che anche gli altri facciano altrettanto e che quindi la legge non lo concedi

Lo stesso identico schema si può applicare a molte altre questioni diciamo scottanti: liberalizzazione droghe leggere, eutanasia, divorzio, e financo libertà di pratica per i pedofili [1]; ma si può applicare anche a temi meno discussi come ad esempio l’alcool o il fumo di sigaretta. Discutere nel merito tutte queste singole questioni esula dallo scopo sia di questo post, sia di quello precedente; vogliamo soffermarci invece sullo schema di ragionamento seguito da così detti liberalisti in merito a questi argomenti.

Un liberalista afferma che i comportamenti praticantisti (1) e permissivisti (2) sono accettabili, mentre i negazionisti (3) non lo sono in quanto manifestatamente illiberali.

Io invece affermo che tutti e tre sono accettabili e legittimi.

Chi è quindi più “liberalista“?

Sono pronto ad assumere personalmente di volta in volta uno di questi tre atteggiamenti a seconda dei singoli casi specifici. Per nessuno di essi ho un atteggiamento pregiudiziale e la scelta per uno di essi dipende esclusivamente dalla mia coscienza e dalla mia libertà.

Ritengo profondamente ingiusto, come fanno i così detti liberalisti, attribuire un carattere negativo, per giunta in modo sprezzante, deligittimatorio se non addirittura offensivo a chi opta per essere negazionista (3) in questo o quel contesto, bollando questi atteggiamenti come “moralisti”, quando invece una “morale” pubblica esiste sempre e comunque, sotto una linea o sotto un’altra. Questa morale si chiama legge, ossia quel sistema di discrimine fra cio che è giusto (concesso) e ciò che non è giusto (non concesso). La legge afferma dei diritti, e questi in quanto tali possono essere liberamente esercitati o meno dai cittadini; è di questo che stiamo parlando.

I liberalisti, inoltre, in modo incoerente non si rendono conto di adottare essi stessi implicitamente il caso negazionista (3) tutte le volte che qualcosa di molto grave viene vietato dalla legge, e per i quali nessuno si azzarda a prendere le difese “liberaliste“, come per esempio la questione della libere pratiche pedofile [1] oppure nel caso del “vigile del fuoco e del suicida”, di cui ho parlato nei commenti di quel post (forse perchè questi temi sarebbero impopolari? tornerò in futuro su questo argomento spiegandolo meglio).

Il partito nazista ci sarebbe se venisse sempre, o troppo spessso, applicata la regola (3). Una società libera applica invece, alla fine, una regola che è una complessa formulazione di compromesso tenendo presente che la società si divide, su ogni questione e in proporzioni sempre diverse, in persone che scelgono di seguire la linea (1), (2) o (3) e che tutte queste sono degne di rispetto, legittime e nessuna di esse limita in quanto tale la libertà di alcuno in modo ingiusto.

[1] si veda: partito dei pedofili

La crisi della politica

Arcivescovo di Canterbury
Leggo sul Corriete.it a questo indirizzo che oggi:

L’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha raggiunto uno storico accordo con Israele a conclusione di un incontro tenuto con i due capi rabbini di Israele al Lambeth Palace di Londra […] designando l’Arcivescovo come intermediario tra Israele e i leader estremisti del mondo musulmano, […] “Vogliamo costruire un ponte tra Cristianità e Giudaismo che possa includere anche l’Islam” ha detto il rabbino capo Metzger, aggiungendo che il fine ultimo degli accordi e’ di aiutare ad instaurare la pace in Medio Oriente.

Tempo fa, ricordo, mentre infuriana in Terra Santa l’intifada, alcuni buoni volenterosi per la pace fecero i così detti Accordi di Ginevra, pur non ufficiali, ma coraggiosi, a dispetto di tutto quello che stava accadendo; erano degli outsider: politici non governativi, intellettuali.

Ma non è forse questo un limite della politica? Fatti come questo mettono in luce che ci sono tante persone che vogliono, al di la della bandiere, davvero lavorare per la pace. E questo è un bene. Mi chiedo però se questa tendenza non sia segno di una patologica crisi della politica, che non riuscendo a procedere nella direzione auspicata dalla gente, viene in un certo senso “messa da parte”. Oppure preferisce essa stessa farsi da parte “mandando in avanscoperta” altri soggetti più credibili sul piano morale per fare da breccia? In ogni caso questo è la perdita della politica. Perchè vuol dire che essa manca di coraggio.

Vuol dire questo che non dobbiamo più credere al ruolo positivo della politica e dobbiamo smetterla di aspettarci da lei passi importanti e coraggiosi? Qualcuno potrebbe obiettare che infondo la politica ha sempre usato questi strumenti per andare avanti.

Mi chiedo se davvero fa parte della normalità oppure se in questi tempi stiamo assistendo davvero a una crisi strutturale della politica, come portatrice di idee.

Francamente penso di si.

S.Paolo e il femminismo

La prima lettura della messa di domenica scorsa era tratta dalla Lettera di S. Paolo agli Efesini (Ef 5,22-33):

22 Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come al Signore; 23 il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui, che è il Salvatore del corpo. 24 Ora come la chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in ogni cosa.
25 Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato sé stesso per lei, 26 per santificarla dopo averla purificata lavandola con l’acqua della parola, 27 per farla comparire davanti a sé, gloriosa, senza macchia, senza ruga o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile. 28 Allo stesso modo anche i mariti devono amare le loro mogli, come la loro propria persona. Chi ama sua moglie ama sé stesso. 29 Infatti nessuno odia la propria persona, anzi la nutre e la cura teneramente, come anche Cristo fa per la chiesa, 30 poiché siamo membra del suo corpo. 31 Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diverranno una carne sola. 32 Questo mistero è grande; dico questo riguardo a Cristo e alla chiesa. 33 Ma d’altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami sua moglie, come ama sé stesso; e altresì la moglie rispetti il marito.

Non c’è che dire: un testo così sembra (anzi è!) decisamente e inequivocabilmente maschilista e non può certo lasciare insensibile, ne non far pensare l’uomo moderno: sia esso credente che non credente. Infatti il testo biblico (e anche le lettere di S. Paolo che fanno parte del Nuovo Testamento, quindi testo Ispirato) deve essere valido sempre e S. Paolo sta affermando in modo totale la asimmetria fra uomo e donna: addirittura il primo deve “amare”, la seconda “rispettare”.

La prima cosa che ho pensato dopo questa lettura è questa: “scommetto che questo passo sarà ampiamente strumentalizzato dai siti ideologico-femministi e/o anticlericali per sostenere le loro tesi”. Detto-fatto: è bastata una ricerca su google per trovare vari testi al riguardo, come per esempio questo. Insieme a molte considerazioni ragionevoli, però, se ne trovano altre che denotano la più totale ignoranza sui Testi Sacri, nonchè non conoscenza più elementare della storia, come ad esempio:

E’ fondamentale comprendere quindi che già qui, agli inizi della storia della chiesa cristiana, le donne sono state ridotte all’invisibilità.

Falso: il maschilismo non è nato con il Cristianesimo. Esisteva da prima e in forme diverse, sia fra gli ebrei che frai greci che fra i romani e ha continuato ad esistere per molti secoli (ed esiste ancora in molte zone del mondo, cristiane e non).

S.Paolo era un ebreo fariseo della “giusta osservanza”. Diremmo oggi un ortodosso. Scrivera in un tempo in cui da nessuna parte le donne avevano i più elementari diritti rispetto agli uomini. Bisogna ricordare che in nessun caso il Nuovo Testamento ha la pretesa teologica di organizzare la società nella sua quotidianetà, ma quella di rivolgersi esclusivamente a temi di fede, come appunto fa S.Paolo in tutte le sue lettere. In questa in particolare sta spiegando, con una metafora, che il rapporto fra Dio e la Chiesa è simile a quello che c’era allora fra l’uomo e la donna. Infatti Dio ama la chiesa e la chiesa deve rispettare Dio. Questo è il tema centrale del passo della lettera e non tanto l’affermazione dell’uomo sulla donna (cosa che all’epoca era già scontanta, quindi a cosa serviva ribadirlo? non serviva certo un’ apposita “lettera” per questo!). Nonostante il testo sembra dire “siccome il rapporto fra Dio e Chiesa è questo allora anche uomo e donna devono a avere questo tal rapporto”, in realtà il senso profondo del testo va esattamente invertito fra premessa e conseguenza; la preoccupazione di S. Paolo non era quella di ribadire il maschilismo, visto il problema non si poneva neanche: non esisteva il femminismo e nessuno metteva in discussione il rapporto uomo-donna di allora; la sua preoccupazione era invece affermare la fede e il ruolo della Chiesa, e usa questa metafora per illustrarne il senso ai cristiani di Efeso di quel tempo.

La missione degli Apostoli non era certo quella di diffondere nuove idee sociali o politiche, perchè queste cambiano con la storia, ed è compito dell’uomo darsi delle regole e delle convenzioni di volta in volta diverse. Questo è a mio avviso l’aspetto più interessante e affascinante del Cristianesimo che fra le regolioni abramitiche è quella che, più delle altre, si concentra esclusvamente su temi di fede, di rapporto uomo-Dio e non tanto su convenzioni sociali o di costume o in generale sul rapporto fra gli uomini (ad eccezzione del comandento fondamentale: ama il prossimo tuo come te stesso).
La missione degli Apostoli di allora e della Chiesa (intesa come comunità di fedeli) di ieri e di oggi era, ed è, la diffusione e il preservamento della fede, che viene prima degli usi, costumi o leggi di sorta: già gli antichi erano abituati e sapevano, come noi oggi, che tutte queste cose cambiano sia con il tempo che di regno in regno, o di città in città.

Gesù stesso ha vissuto in un epoca in cui veniva praticata la poligamia e non ha mai detto una parola contro di essa: bisogna quindi dedurre che la monogamia sia una invenzione successiva della Chiesa? Non è questo il punto.

Affermare che quelle siano le cause del maschilismo nella storia significa non conoscerla ed avere un approccio ideologico e pregiudiziale verso il cristianesimo e la Chiesa (intesa sempre come comunità di fedeli e non come un insieme di preti come spesso alla gente piace intenderla). Gli ideòlogi femministi dovrebbero piuttoso preoccuparsi di vedere i veri problemi laddove essi risiedono veramente, piuttosto che praticare una sorta di caccia alle streghe, additando il maschilismo anche laddove l’argomento è fuori contesto. Questo atteggiamento non solo non porta merito perchè non è virtuoso, ma va contro gli interessi della donna e della sua giusta affermazione nella società moderna.

Che poi il mondo clericale nei secoli e ancora oggi abbia delle manifestate tendenze a certe forme di maschilismo è un dato di fatto, ed è un’altra questione che comunque è dibattuta, come è giusto che sia, visto che il problema del rapporto uomo-donna viene in realtà dibatutto in ogni contesto sociale moderno.

Chi critica la Chiesa in questo senso lo fa come se fosse un problema solo del mondo clericale, mentre invece il problema del rapporto uomo-donna riguarda più in generale la società a tutti i livelli: mondo del lavoro, politica, famiglia etc..etc.. Visto che la Chiesa è una delle tante realtà della società (che per giunta esiste da 20 secoli!) e visto che l’affermazione dei diritti della donna è un fenomeno storicamente recentissimo, perchè mai questo problema non dovrebbe affliggere anche la Chiesa?

ideologia liberalista e nichilismo

il liberalismo è definito storicamente come “favorevole al riconoscimento delle libertà individuali e politiche” (it.wikipedia). La libertà è un tema caro a tutti, che fa sempre discutere e che giustamente difendiamo tutti come una grande conquista della nostra civiltà. L’uomo occidentale è coscente, in un modo o nell’altro, sotto una idea o sotto un’altra, di essersi guadagnato nella storia questo tesoro da tutelare.

Domanda meno scontata è “fino a che punto questo principio può essere spinto?

Il diritto di voto agli uomini prima e alle donne poi, la democrazia, lo stato di diritto, libertà di pensiero, stampa, professione religiosa etc… e tante altre cose vengono giustamente inquadrate come “conquiste liberaliste“. Cose su cui tutti siamo daccordo.

Anche temi più controversi come aborto, eutanasia, matrimoni omosessuali vengono reclamati come “battaglie liberaliste“, ma non trovano il consenso di tutti. Molte persone hanno opinioni contrastanti su ogni singolo tema di questo tipo. Non esiste un movimento ben definito che porti avanti in modo coerente tutte queste posizioni. Tuttavia non manca l’applicazione ideologica del liberalismo come se fosse un dogma assoluto da applicare sempre e comunque.

Ecco come ragionano questi ideòlogi: “Se una cosa è nelle aspirazioni di alcuni individui e non tocca il prossimo o gli interessi della società, allora deve essere lecita e quindi permessa dalla legge. Se la legge non lo permette allora la legge è illiberale e va cambiata“. Viene sostazialmente negato ogni intento “morale” della legge, che deve invece tutelare l’interesse e di desideri dell’individuo al di sopra dell’interesse di una qualsiasi “morale comune“. Non è importante cosa dica questa morale, qualunque essa sia è non applicabile in quanto illiberale.

Queste argomentazioni sembrano apparentemente molto rispettose del prossimo. Tuttavia portano a risultati non poco sconcertanti. Esempi:

  • Aborto: invece di affermare “io penso che l’aborto sia giusto perchè non riconosco all’embrione il diritto indiscutibile di vivere al di sopra del diritto della madre di interrompere la gravidanza” oppure “penso che l’embrione non sia un persona umana” i liberalisti radicali finiscono invece con il dire: “se alla madre viene accordata libertà di coscienza, nessuno viene penalizzato: chi non vuol abortire non lo fa e chi vuole se ne assume la responsabilità morale; in questo modo nessuno è costretto a sottostare a regole morali che non condivide mentre può seguire liberamente la sua”.
  • Eutanasia: stesso schema. Non si dice “penso che la vita umana possa essere interrotta liberamente”, piuttosto si sostiene “se ci fosse l’eutanasia viene riconosciuto un grado di libertà in più alla coscienza delle persone e questo consente sia a chi è contrario sia chi è favorebole di praticare le proprie idee”

(ci sarebbero altri esempi tutti simili, ma evitiamo per motivi di sintesi)

La pretesa di questi ragionamenti è che anche le persone che sono contrarie a una certa cosa (per loro stessi) dovrebbero in realtà essere favorevoli che la legge lo permettesse in ragione dell’amore per gli altri e del rispetto delle idee altrui.

Tutti questi atteggiamenti sono dei tentativi di evitare di entrare nel merito della discussione dei singoli problemi opponendo l’ideologia dogmatica del liberalismo che impone di ragionare in termini di scelte individuali anzichè collettive. I loro ideòlogi dicono di non essere contrari a una morale, ma sono contrari a una morale collettiva. In pratica deve esistere solo una morale individuale. Ma questa è in realtà una non-morale: perchè ridotta a pura idea personale.

Ecco il nichilismo all’orizzonte: infatti si nega a che i singoli portino avanti una qualunque delle proprie idee: se si ritiene una cosa sbagliata, dovrei quindi rinunciare al diritto di volerlo regolamentare nella legge, in nome del dogma del “rispetto degli altri”; questo avverrebbe senza discutere sul merito, senza un dibattito costruttivo che poi pervenga a una qualche sintesi collettiva e democratica che porti infine a una qualunque soluzione, anche di compromesso, “mediamente condivisa”.

Viene disincentivata o negata qualsiasi dialettica nella società: in pratica si anestetizza la mente delle masse evitando un qualcunque dibattito costruttivo di dialettica e confronto. La gente non deve pensare e battersi per le quelle idee. Dovrebbe invece pubblicamente praticare il nichilismo assoluto e al massimo relegare le proprie idee (ammesso che le abbia!) in un angolo remoto della propria mente. Cosa ci facciamo delle nostre idee (oltre a praticarle) se non le possiamo neanche professare?

La ragione umana, che si esprime nel confronto e nel dibattito è negata.
La democrazia (ossia il diritto di portare nella società le proprie idee e di battersi per esse) pure è negata.
Secondo il liberalismo, la legge non è più un compromesso politico all’interno di una società che dibatte, che si confronta sui temi, che mèdia, che pensa, che induce ad assumere una posizione ai cittadini, insomma… che cresce.

Viene invece proposto un ideologico approccio, in alternativa a tutte le idee: quella del liberalismo individuale che nega di fatto il diritto di portare una qualunque idea di ordine morale all’interno della società e bollano questo atteggiamento come “moralista”.

Ma perchè non dovrei battermi affinchè una cosa che ritengo moralmente giusta (o errata) per tutti, trovi (o non trovi) applicazione nella legge ?
Un tempo questo avveniva in modo autoritario, ed era quindi giusto combattere certe imposizioni “moraliste” che venivano calate dall’alto senza mediazione democratica. Infatti alcune di queste sono state giustamente cambiate nel corso della storia. Ma l’ideologia liberalista non fa distinzione e continua a sostenere le stesse cose nello stesso modo e in tutti i casi, ed ad oltranza; senza spirito critico.

Perchè non sarebbe giusta una affermazione di una qualche “morale”, se avviene in modo civile secondo un confronto democratico? Sarebbe davvero una violazione della libertà altrui (“imporre le idee agli altri”, si dice)? Non sarebbe invece un leggittima aspiriazione delle proprie idee? Perchè non dovrei desiderare una società secondo certi canoni? C’è qualcosa di male se desidero che i miei figli vivano in una società che sia fatta in un certo modo? Loro chiamano questo “moralismo”, e si rifiutano di discutere di qualcunque argomentazione che riguarda questo “moralismo”, anche quando alcuni suoi aspetti vengano ritenuti accidentalmente “giusti”.

Il liberalismo elevato a ideologia in questo modo non può essere un valore universale: non è libertà, piuttosto una dittatura di un qualunquismo nichilista.

Povertà, virtù e libertà

S.Francesco
Stamane stavo riflettendo sul tema della povertà e della libertà.

Caso 1: Un uomo molto ricco vive al di sotto di ciò che potrebbe. Si accontenta di molto meno di ciò che potrebbe avere. Si preoccupa di impiegare il proprio denaro in modo virtuoso, ma sa rinunciare a tutto e per nessuna delle cose che ha, la ritiene davvero indispensabile e quando ne rinuncia, non per questo ne soffre. Non si cura di fare elemosine agli altri, ma se qualcuno gli chiede non si tira indietro.

Caso 2: Un’altro uomo non è ricco, diciamo anzi che ha spesso problemi economici e vive al limite delle proprie disponibilità economiche. E’ sempre smanioso di avere nuove cose: nonostante non potrebbe permetterselo fa debiti per comprare il telefonino mobile di ultima generazioni e vacanze ai caraibi: non potrebbe rinunciare a tutte queste cose ed è quindi disposto a fare sacrifici per averle. Spesso fa lavori extra con grande sforzo e orgoglio pur di poter comprare queste altre cose. A volte fa anche qualche elemosina allo zingarello in strada.

Ora io mi chiedo: chi è più povero dei due ? Chi più vituoso ?

Secondo me il primo dei due non solo è più virtuoso, ma anche più povero.

Il povero, infatti è quello che sa rinunciare a quello che ha e conservare comunque la felicità; non è colui che si duole per ciò che non ha o che si affanna pur di possedere.

Povertà è sinonimo di virtù: in tal senso non può essere misurata con la somma dei propri averi. Anche se è molto improbabile che un ricco in averi si comporti in questo modo virtuoso (perchè forse non sarebbe ricco-in-averi), tuttavia la povertà in questo senso è piuttosto uno stato interiore che non dipende dalle ricchezze-in-averi.

Da tutto ciò ne consegue che il povero-virtuoso è anche più libero perchè le sue scelte non dipendono dai desideri ma solo da suo cuore, e questo indipendentemente dalle ricchezze-in-averi che possiede. E’ chiaro che chi sceglie la povertà-in-averi assuluta e radicale (come fece S.Francesco) non lo fa come fine, ma come mezzo che implica necessariamente anche una povertà-virtù giacchè è scaturita da una libera scelta che implica a sua volta una non dipendenza dall’avere: questo è il più grande esempio di povertà-virtù, ma non bisogna pensare che necessariamente chi è povero-in-averi allo stesso modo sia ugualmente povero-e-virtuoso. I due casi sopra lo mostrano.

Conclusione: povertà-virtù è una forma di libertà e, a priori, non dipende dal grado di povertà-in-averi che a sua volta può essere segno di virtù o dissolutezza allo stesso modo di come la ricchezza-in-averi può essere segno di virtù o dissolutezza.