Se stiamo per morire siamo solo “qualcosa”

“Cercano di tenere in vita qualcosa che è già morto”.

Roberto Ferri su funpage

Così esordisce Roberto Ferri, amico di una vita di Franco Battiato, che a quanto pare sta per passare questa vita.

Al di la della vicenda personale di questo artista , sulla quale non commento, al di la delle questioni sul così detto fine vita, c’è una cosa che mi ha profondamente scosso: se ti stai spegnendo, se te ne stai andando, se stai per incontrare il passaggio della morte, allora non sei più considerato “qualcuno” ma “qualcosa“. Parola di un amico.

Dietro un linguaggio apparentemente innocuo, celato e tradito dalle forti emozioni, si nasconde in realtà una mentalità a dir poco inquietante. Se presa sul serio è la premessa di una barbarie senza fine.

La nostra civiltà si è basata, fino adesso, sull’assunzione condivisa che la dignità umana è inviolabile. Ce lo dicono tutto l’impianto dei diritti umani. INVIOLABILE. Ma pare che gradualmente stiamo dimenticando cosa questo significhi per davvero. Ed ecco che una frase apparentemente innocua passa quasi inosservata, senza che ci rendiamo conto di quali enormi conseguenze avrebbe se veramente fosse presa sul serio.

Le parole sono macigni. Qualcuno diceva che le parole che escono dalla bocca sono lo specchio del nostro cuore.

Crolla completamente tutto l’impianto dei diritti umani.

Commentai a fondo anni fa una canzone di Franco Battiato, pur non essendo suo fan, e fui citato anche in un libro. Auguro a questo artista, questa persona, la pace e una felice festa, prossima ventura.

E i miei quattro lettori cosa ne pensano? Se stiamo per morire, anche nel modo più disperato possibile, siamo ancora qualcuno? Fino a poco tempo fa la domanda non si poneva neanche; la risposta era scontata: si. Oggi no, oggi nulla è più scontato, tanto tutto viene relegato alla “opinione personale”. Ma allora se tutto può essere opinione accettabile, che ne è della giustizia, anche se umanamente limitata?

Un precedente e una profezia

Il Papa ha voluto creare un precedente, ed essere così profetico per il futuro della Chiesa. Non è un atto solo personale.

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Papa Benedetto XVI durante l’annuncio della rinuncia al ministero petrino

Nell’annuncio delle proprie storiche dimissioni, papa Benedetto ha giustificato la sua scelta dicendo, tra le altre importanti cose: “….nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti…..”; di quali rapidi mutamenti sta parlando il Papa? Penso sia molto semplice: oggi c’è un modo nuovo di morire. Non all’improvviso, per una febbre o una breve malattia, una polmonite o un’infezione misteriosa, come un tempo. Si muore spesso, piuttosto, in seguito a lunghi periodi di disabilità. Non è la vita che è si è allungata, ma la vecchiaia. E con essa si convive di più e più a lungo con esperienze quali mente meno lucida, acciacchi sempre più debilitanti, etc…

A questo si aggiunga che l’agenda di un Papa, oggi, non è più quella del 1200: impegni quotidiani e scalette fittissime di incontri, discorsi da preparare, agende cronometrate sul minuto.
Inoltre la Chiesa, nel XX secolo, è molto più grande ed estesa di un tempo: troppe le cose da seguire.

Il rischio è che un Papa malato e/o disabilitato o anche non malato ma semplicemente troppo anziano, soprattutto se si trova in queste condizioni per lunghi anni, è un problema piuttosto che una risorsa; e allora l’alternativa alla dimissione non può che essere il delegare de-facto ad altri, come tra l’altro è avvenuto negli ultimi anni con Giovanni Paolo II; il risultato è che la Chiesa si ritrova così senza vero governo, senza Pietro.

Penso che l’intenzione del Papa, oltre che personale, sia anche stata quella di creare un precedente nella Storia; “soggetto a rapidi mutamenti” vuole semplicemente dire che “Papa fino alla morte” non è altro che una tradizione, appunto con la “t” minuscola: non fa parte di quella Tradizione, con la T maiuscola, che è ben altra cosa, e di cui questo Papa è difensore innamorato. Da oggi dovremo quindi convivere con l’idea che per il Vescovo di Roma “carica a vita” (ma sarebbe meglio dire ministero) non significa necessariamente “fino alla morte”. E questo è imposto proprio da quei “rapidi mutamenti” di cui parla Benedetto.

Benedetto è un uomo di grande realismo e di grande semplicità. I commenti che sento in giro, in ufficio e per strada, quasi sempre in stile da osteria, non fanno che mostrare quanto la gente non conosca questa persona semplice e mite, lontana anni luce dagli stereotipi massmediatici; eppure non serve avere amici in Vaticano per scoprirlo: basta leggersi su internet i suoi scritti, il suo pensiero, le sue omelie, i suoi discorsi. Ma pazienza: nel consumismo mondano delle notizie, già domani si parlerà d’altro. Nel tram tram quotidiano della cultura del “talk-show” basta che ognuno dica la sua, e che magari faccia “colpo” o che sembri intelligente, divertente o originale: non è necessario che siano cose sensate. Anche questo fa parte dei “rapidi mutamenti” che vediamo sotto gli occhi.

Il Signore ha comandato a Pietro di pascere le sue pecorelle. Anche con questo atto Benedetto non fa che rispettare questo semplice comando: anche il distacco può essere un evento grandemente educativo, come tra l’altro ha mostrato lo stesso Signore Risorto con i suoi discepoli: “è un bene per voi che io me ne vada”.

E Giovanni Paolo II, ha forse sbagliato a rimanere li fino alla fine, sofferente e malato? Certo che no: ma lui era animato da un’altro discernimento, da altre ragioni. Altrettanto evangelicamente valide. Quando si ha a che fare con la coscienza, anche comportamenti opposti possono essere entrambi validissimamente fondati: perché il Signore chiede a ognuno di noi cose diverse. Purtroppo il moralismo ampiamente diffuso, sia nella Chiesa che fuori, attaccato a certa “tradizione”, difficilmente comprenderà questo punto di vista, perché certe differenze sono sempre poco capite.

Ringrazio il Signore per questo grande dono che ha fatto alla Chiesa in questi otto anni di pontificato di questo semplice, mite, acuto, uomo di fede.

PS: un pronostico: il prossimo Papa non si chiamerà ne Giovanni Paolo, ne Benedetto.

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    troppo lungopoco chiaronon ci avevo mai pensato
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    L’antropologia del «vecchio comunista togliattiano»

    L’accusa di individualismo viene oggi lanciata alla cultura “laica” di sinistra di fatto dominante, che a detta di vecchi comunisti, è in netta contraddizione con i valori storici più autentici di quella tradizione politica.

    Palmiro Togliatti

    «Per quanto riguarda la difficoltà di arrivare a una mediazione legislativa in queste materie [Dat o unioni civili, NdR], penso che forse varrebbe la pena di provare a confrontarsi su cosa debba essere la famiglia, oppure partendo dall’estremo più estremo: l’eutanasia. Anche rispetto al senso morale comune, è difficile affermare che la disponibilità sulla mia vita sia un mio diritto individuale, poiché non mi sono autogenerato. Non conosco vite autogenerate, come non conosco morti solitarie, che non coinvolgano cioè la comunità. Lo stesso vale per le coppie omosessuali. È la Costituzione a definire cosa sia la famiglia, riconoscendole la finalità prioritaria della generazione. L’amore, l’affetto, la solidarietà sono importanti, ma quello che definisce la famiglia è la generazione e il diritto dei nati ad essere generati da un padre e una madre». [1] Leggi tutto “L’antropologia del «vecchio comunista togliattiano»”

    Se Manini non è codardo siamo tutti meno liberi

    La vicenda di Michelangelo Manini è incomprensibile per il mondo di oggi. Dietro certi giudizi ingenui si nasconde una concezione del concetto di libertà umana che falsifica la realtà. Preferisco altri modelli…

    Michelangelo Manini, proprierario della FAAC, muore senza eredi e lascia un patrimonio miliardario alla Curia di Bologna; un gestro “strano” e inatteso. I giornali ne parlano. Mi ha colpito questo estratto di Deborah Dirani sul Sole24ore online:

    aveva appena 50 anni ed è morto dopo una lunga malattia. Ancora: non è stato nemmeno, il suo, un gesto dettato dalla paura della morte e di quello che potrebbe esserci nell’Aldilà, pentimento generoso e un po’ codardo di qualche terreno peccatore. No, no Manini aveva fatto testamento nel 1992, 20 anni fa, e mai da allora aveva rimesso mano alle sue ultime volontà.
    Semplicemente aveva deciso che, passato lui, le cose sue passavano alla Chiesa. E così è stato.

    Dunque secondo la Dirani, il Manini non è stato codardo. Leggi tutto “Se Manini non è codardo siamo tutti meno liberi”

    Presidente, per quanto tempo ancora?

    Lettera aperta al Presidente della Repubblica sulla sua uscita circa il suicidio del regista Mario Monicelli

    Lettera aperta al Presidente della Repubblica Italiana

    On. Giorgio Napolitano.

    Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

    Signor presidente, lei ha affermato in questi giorni che il gesto di Mario Monicelli di porre fine alla sua vita sarebbe “un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare” [1].

    Le ricordo, Signor Presidente, che Mario Monicelli non era una persona qualunque, ma un personaggio pubblico. E come tutti i personaggi pubblici creano modelli di imitazione. Le ricordo, Signor Presidente, che anche lei non è una persona qualunque, ma un personaggio pubblico. Anzi il primo cittadino di questo paese. E come tutti i personaggi pubblici creano modelli di imitazione. Leggi tutto “Presidente, per quanto tempo ancora?”

    Scrigno dell’ego 3: poesia

    (seque dal post precedente “Scrigno dell’ego 2: domande laiche”)

    Diritto all’istruzione?
    Si, perché è per i vivi e per vivere
    Diritto al lavoro?
    Si, perché è per i vivi e per vivere
    Diritto alla Cura?
    Si, perché è per i vivi e per vivere
    Diritto di Amare?
    Si, perché è per i vivi e per vivere

    Morire non è un diritto.
    Un desiderio non è un diritto.
    La risposta al dolore non è la morte.
    La risposta alla sofferenza non è la morte.

    Che si faccia pure della libertà di coscienza,
    lo scrigno dell’ego e arma di ogni umano desiderio…

    Che venga pure questa eutanasia…
    Che irrompa pure in nome della falsa libertà…

    …ma non potrà farlo con il mio si.

    L’etica serve il malato o il malato l’etica?


    la dottoressa Claudia Navarini nella rubrica di Bioetica di ZENIT, sposa una tesi molto severa nei confronti di chi sostiene sia l’eutanasia passiva, sia di qualunque forma di presunto (ma a suo avviso falso e forzato) accanimento terapeutico, come quello del caso Welby.

    I suoi due articoli [1] [2], incentrati sul piano dell’etica medica, non lasciano spazio a fraintendimenti. Devo dire sono entrambi molto convincenti.

    Tuttavia in un paragrafo di [1], recita:

    mentre il paziente capace di intendere e di volere – di cui una valutazione specifica abbia dimostrato la totale lucidità – ha sempre la possibilità di rifiutare preventivamente un trattamento sanitario, anche se ciò gli procurasse un danno e al limite anche se ciò avvenisse per esplicita volontà di morire, lo stesso paziente non ha il diritto di chiedere ad un medico di dargli la morte, né in modo attivo (somministrazione di un farmaco letale) né in modo passivo (sospensione di un trattamento necessario alla vita).

    questo mi sembra l’unico punto delle sue tesi che necessita di spiegazione, in quanto sembra decisamente contraddittorio.

    Come è possibile che un paziente, una volta fatta una tale scelta, debba essere di conseguenza condannato solo per aver accettato la terapia (dagli esiti per altro incerti)? Tornando al caso Welby (tanto per semplificare, visto che tutti lo conoscono) mi sembra di capire che secondo la Navarini, egli avrebbe potuto senza problemi, se non voleva soffrire, opporsi alla terapia prima che gli venisse applicato il respiratore. Tuttavia sembra ragionevole che egli abbia accettato a suo tempo la terapia perchè, forse, in quel momento poteva veramente rappresentare un sollievo e/o una speranza. Forse la prospettiva di sofferenza che poi si è realizzata non era in quel momento contemplata, oppure era solo probabile (forse tutto questo non è valido nello specifico del caso Welby, ma in molti altri certamente si).

    Insomma, l’ argomentazione sembra davvero irraggionevole: sembra quasi che secondo la Navarini non sia più l’etica medica che debba servire il malato, ma piuttosto che il malato debba inchinarsi ed essere subalterno all’etica medica. Appare una evidente contraddizione: la medicina è per il malato o il malato per la medicina?

    Concordo pienamente con la dottoressa riguardo la spaventosa e pericolosa strumentalizazione che c’è dietro certe tendenze e politiche, che lei doverosamente critica.

    Invito cortesemente la Navarini, visto anche la dichiarata disponibilità infondo all’articolo, ad una risposta, anche pubblica, su questo blog o ovunque ella desideri.

    Riferimenti: