La strage di Cana. 60 morti di cui molti bambini.
Perchè?
La risposta è incredibilmente semplice; basta raccogliere nelle news alcune ultime dichiarazioni.
L’ambasciatore israeliano:
«Terribile, ma Cana era un covo di Hezbollah»
Peretz (Premio Nobel per la pace!)
«Civili usati come scudi umani»
Il ministero degli Esteri israeliano:
«Israele esprime il suo rammarico per la morte di civili innocenti. Non vogliamo che dei civili siano coinvolti nella guerra tra Israele e Hezbollah»
Mi chiedo come è possibile una tale ipocrisia. Non solo. Fosse solo quella, sarebbe cosa tipica di tutta la politica. Ma qui c’è decisamente qualcosa di più, che non va. Supponiamo che fosse vero che Hezbollah si faccia scudo dei civili, come dicono. Foss’anche così, sarebbe una giustificazione procedere in questo senso ?
E’ come dire che “se devo giustiziare due assassini in mezzo a cento sospettati, e non riesco a scovarli, giustizio tutti e cento e faccio prima. E’ più facile“. Semplicemente assurdo. Al di la di ogni limite. Di ogni comprensione.
Qui c’è una barbarie profonda, così profonda che non si esprime tanto nel numero di morti che contiamo in questi giorni e nel modo in cui vengono uccisi, si esprime in ciò che un governo così detto democratico (ma forse invece dobbiamo meditare sul significato di questa parola) reputa ammissibile e cosa non reputa ammissibile (forse nulla?). Il discrimine. Il Limite. Ciò che è concesso da ciò che non è concesso. La massima misura cuì è possibile spingersi.
In tal senso la giustificazione “ma Cana era un covo di Hezbollah” non è una scusante, ma un’aggravante. Che mette in primo piano il ragionamento perverso, profondo e radicato del malessere di una società assuefatta dalla guerra e dalla violenza. La guerra, da quelle parti, serve anche ai politici a far carriera.
In Europa abbiamo conosciuto molte guerre. Tremende e terribili, ma sono tutte finite. Nel tempo sono ricominciate e poi terminate ancora. Questo alternarsi di guerra e pace ha fatto si che si concepisse la guerra come una parentesi, pur difficile, della storia. Le generazioni hanno vissuto periodi di guerra, ma anche periodi di pace. Questo ha portato a concepire lo “stato di guerra” come eccezzionale e provvisorio nella nostra società.
Li è diverso: una guerra ininterrotta da 50 anni. Dall’anno zero (1948) fino a oggi, generazioni di persone hanno vissuto solo uno stato di guerra, nonostante molti conducano una vita “normale” lavorando, accompagnando i figli a scuola, oppure giocare a calcio o andare in bicicletta… il tutto con tragica assuefazione, fra una chiamata alle armi e un’altra. Fra un turno da riservista e un’altro.
Le nuove generazioni sono cresciute con la guerra. I loro nonni hanno fatto la guerra. I loro padri hanno fatto la guerra, è quindi normale che anche loro facciano la guerra: questa è la condizione di un mio coetaneo (e coetanea!), trentenne.
Nessun Europeo, per nessuna ragione, può comprendere ne accettare una tale concezione della realtà, della guerra, della politica, anche in un contesto di quel tipo.
Purtroppo, bisogna dirlo e mi raddolora: questo alimenta anche un certo tipo di antisemitismo e antisionismo nel vecchio continente, anche se non ne è la causa. Sopratutto il primo dei due, che ha radici buie, vergognose e lontante.